Le mie "cicatrici d'oro"
- Dana Neri
- 1 ott 2021
- Tempo di lettura: 2 min
Alcuni giorni fa ho pubblicato un nuovo articolo per il Magazine di Barnebys, sul Kintsugi, l'arte giapponese che consiste nell'utilizzare un metallo prezioso (oro, argento o platino, per esempio) per aggiustare oggetti in ceramica o porcellana. Scrissi qualcosa su questa meravigliosa arte/filosofia di vita anche nel mio romanzo Mangiafuoco, che spero di ripubblicare a breve (la casa editrice che aveva acquistato i diritti nel frattempo ha chiuso), e da allora non ho mai smesso di ripensare a quello che il Kintsugi mi ha insegnato. In antitesi alla società consumistica in cui viviamo, basata sull'usa-e-getta, il Kintsugi insegna a non gettare via un oggetto solo perché rotto, ma a dare ad esso nuovo valore, rendendolo prezioso. Gli artisti giapponesi che utilizzano questa tecnica snobbano l'uso della colla (che tende a "mettere insieme i cocci" cercando di nascondere i punti di rottura) ed esaltano le fratture incollandole con un miscuglio di lacca e oro (oppure argento, o platino) liquido. In pratica, invece di nascondere le crepe (le "cicatrici") di un oggetto rotto, danno loro maggiore visibilità. L'insegnamento che il Kintugi trasmette è questo: le "ferite" di un oggetto fanno parte della storia dell'oggetto stesso e, in quanto tali, vanno rispettate. Facendo un parallelo con gli esseri umani, una persona che è stata ferita, a livello fisico, mentale o emotivo, non deve nascondere le proprie "cicatrici" (reali o metaforiche che siano), ma mostrarle al mondo senza vergogna. Quelle cicatrici fanno parte della storia personale dell'individuo e urlano al mondo: "Ne ho passate tante, ma sono ancora qui!".
Io sul mio corpo ho qualche cicatrice, più o meno evidente; dentro, ho altre cicatrici invisibili, che a volte stento a mostrare, ma di cui sono tutto sommato orgogliosa. Perché fanno parte di me, della mia storia, di quello che sono oggi. Sono le mie... "cicatrici d'oro".

Foto di Riho Kitagawa
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